venerdì 27 maggio 2016

Ecco il primo capitolo del libro, Leggetelo!

L’ATTIMO FATALE

Un sms sul cellulare: “Incidente sulla statale, due auto coinvolte, alcuni feriti, forse un morto.”
Anche così arrivano le notizie ai giornalisti, senza dover attendere la sera o il mattino, quando bisogna mettersi al telefono e “fare il giro” delle telefonate alle forze dell’ordine per sapere se è successo qualcosa.
É la morte improvvisa, quella che il cronista, spesso, è chiamato a scrivere. La morte per incidente stradale, infortunio sul lavoro, infarto fulminante, suicidio e così via.
É l’argomento più importante da trattare, quello che “fa leggere” e scatena la curiosità dei lettori che vogliono sapere tutto nei minimi particolari: cos’è successo, chi era la persona deceduta, cosa faceva in vita, chi sono i suoi parenti e come aveva vissuto.
Una morbosa curiosità nei confronti delle persone, perché la gente, in fondo, non legge i giornali solo per tenersi informata, ma anche per sapere cosa fanno gli altri.
Chi lavora per un quotidiano da tanti anni ed è chiamato a raccontare gli avvenimenti che accadono ogni giorno, ormai, ha fatto l’abitudine alla morte improvvisa e lo sconcerto delle prime volte ha lasciato spazio a una certa freddezza.
Quando sei chiamato a scrivere decine di articoli all’anno che riguardano incidenti mortali e decessi di ogni genere, dopo qualche di tempo, raccontare la morte, diventa una consuetudine e i primi tentennamenti e le emozioni che vive un novello cronista alle prese con un grave fatto di cronaca, lasciano spazio alla routine.
La morte, così, diventa un fatto come un altro, da trattare alla stregua di un consiglio comunale o di un dibattito, spogliandosi di connotazioni emotive.
Pensate sia cinico? Più che altro è necessità.
La necessità di essere freddo, lucido, di poter ragionare e agire. La morte, anche se improvvisa, infatti, non deve distoglierti da quelli che sono i tuoi compiti, cioè raccogliere tutte le informazioni necessarie e scrivere l’articolo nel più breve tempo possibile.
Descrivere la morte fa parte del tuo lavoro e non puoi lasciare spazio ai sentimenti. Per questo, anche se muore un bambino non puoi pensare al dramma dei genitori, ma devi metterti subito al lavoro perché i lettori aspettano.
E anche se conoscevi la persona deceduta non puoi fermarti: non hai tempo per farti prendere dalle emozioni personali, devi scrivere! E subito, perché nell’era dell’informazione online ogni minuto è prezioso e la notizia va pubblicata più presto possibile.
É l’informazione di oggi, quella che corre in rete, sul pc, sul tablet, sul telefonino. L’informazione famelica di chi vuole sapere tutto e subito.
Una corsa sfrenata alla ricerca di cosa succede, della notizia, del caso umano, della curiosità.
É la prerogativa della società in cui viviamo, quella di correre sempre più veloce verso un obiettivo, anche se poi, alla fine, la meta sarà sempre la stessa e uguale per tutti: la morte.
A cosa serve, allora, darsi da fare, muoversi, essere frenetici e arrivare prima, se poi comunque dobbiamo morire e tutto quello che abbiamo accumulato in vita rimane ad altri? Bella domanda.
Il giornalista, però non ha tempo di porsi quesiti: che tu scriva per un quotidiano online, per radio, Tv o per la carta stampata, quando vieni a conoscenza di una morte improvvisa, devi allontanare le emozioni, bloccare tutto ciò che stai facendo e gettarti anima e corpo nell’articolo.
Devi raccogliere i dati sulla persona morta: chi era, cosa faceva, lavoro, parenti, amici e così via.
Insomma devi trasformarti in una sorta di detective.
La parola “giornalista” apre molte porte ed è stupefacente come, a poche ore dal decesso di una persona che neppure conoscevi, riesci a darle un volto, una personalità, a ricostruire i momenti salienti della sua vita e raccontarla ai lettori.
Pochissimi individui sono a conoscenza dell’enorme lavoro che sta dietro un semplice articolo di cronaca nera, della capacità di sintesi che un giornalista deve avere per riassumere, in poche righe, la vita di una persona.
Quando faccio il mio lavoro di cronista, ovviamente, non penso a tutto questo e neppure all’attimo fatale che spegne l’esistenza di qualcuno o alle sue aspettative mancate. Non penso ai progetti che aveva per il futuro e al dolore che prova la gente che lo amava. Lavoro e basta.
Appresa la notizia, infatti, tutto diventa automatico: le telefonate, il tono di voce sommesso e triste che devi avere quando parli con un parente della persona morta, quello professionale con le forze dell’ordine, persino l’atteggiamento distaccato e freddo che un giornalista deve tenere quando descrive il decesso di una persona conosciuta, un collega di lavoro, un conoscente o addirittura di un amico.
Per chi vive in una realtà locale e scrive su un quotidiano della zona come il sottoscritto, infatti, più passano gli anni e più devi raccontare la morte di persone che conoscevi: maestri, insegnanti, politici che amministravano la città quando eri alle prime armi, a volte persino amici d’infanzia o persone care.
Quelli più anziani generalmente muoiono prima, ma spesso capita anche ai compagni di scuola, ai conoscenti, agli amici di oggi.
Quando muore un bambino o un giovane, poi, è ancora peggio, perché devi partecipare anche al funerale e fare l’articolo su quello che accade dentro e fuori dalla chiesa. Devi raccontare la cronaca della gente che piange, dei fiori bianchi sulla bara, scattare fotografie, scrivere su un taccuino l’omelia del parroco e tanto altro.
Partecipare a questi funerali è straziante perché ogni angolo della chiesa trasuda di dolore: un dolore grande, intenso, indescrivibile!
Però, non puoi commuoverti al pianto dirotto della mamma o del papà, agli occhi lucidi della gente e alle parole del sacerdote, dei parenti e degli amici. Devi essere freddo, anche se vorresti scappare da quella chiesa dove tutti soffrono, dove il ricordo del bambino appena morto è ancora presente e l’angoscia palpabile.
Quando sei in chiesa col tuo taccuino e la macchina fotografica, la gente ti guarda in maniera sprezzante, a volte persino con odio; io non li vedo e passo davanti a tutti come se non ci fossero, ma sento il peso dei loro sguardi e di chi pensa “stiamo soffrendo, lasciaci in pace”.
In tanti anni che faccio il giornalista, però, ho sempre cercato di non lasciarmi coinvolgere dai sentimenti, neppure quando dovevo raccontare la morte delle persone che conoscevo.
La necessità di svolgere il mio lavoro non mi ha mai consentito di farmi condizionare dalle emozioni e ho sempre mantenuto una certa freddezza. D’altro canto non puoi fare diversamente: quando devi narrare un fatto di cronaca, infatti, non hai tempo per pensare ad altro, ti concentri sull’accaduto, sulle telefonate che devi fare e, quando sarai in chiesa al successivo funerale, su ciò che accade in quei frangenti.
Poi inizi a scrivere.
A quel punto, sul tavolo, telefono e computer diventano il tuo mondo. Spesso non devi neppure recarti sul luogo dell’incidente perché ci pensa il fotografo. É sufficiente fornirgli le indicazioni giuste. Solo in rari casi si va sul posto e solo quando la tua presenza è indispensabile per raccogliere le testimonianze dei vicini di casa o capire la scena allo scopo di descrivere meglio il fatto.
In genere, è molto più utile rimanere a casa, incollato al telefono per parlare con le forze dell’ordine, guardare se la vittima ha un profilo su Facebook, dove puoi trovare anche delle immagini, cercare parenti e amici.
Infine arriva l’aspetto più difficile: raccontare succintamente chi era e cosa faceva, nella vita, la persona appena deceduta. Poche parole per descrivere, in qualche modo, le sue aspettative, i suoi desideri, le sue speranze.
Soltanto dopo, a luci spente, quando hai inviato l’articolo in redazione o l’hai pubblicato online, inizi a pensare realmente all’accaduto, a quel genitore che si è schiantato contro un palo e ai figli in tenera età, rimasti orfani.
Il brivido sulla schiena ti era già venuto quando hai scoperto che la mamma ha lasciato una bambina in età scolare, ma avevi allontanato il pensiero perché troppo concentrato sull’articolo.
Adesso, a luci spente, quel pensiero ritorna. E ti tormenta.
Pensi ai bambini rimasti senza un genitore e poi pensi ai genitori che piangono i loro figli e sai che questo è il male peggiore, perché non si può vivere senza un figlio.
Pensi alle vite spezzate e a come sia facile morire.
E pensi che basta un secondo, un attimo fatale, per cambiare completamente la nostra vita e quella delle persone che ci amano.
Io mi reputo un uomo molto fortunato perché attraverso il giornale ho la grande possibilità di raccontare la vita di una città e dei suoi abitanti, ma quando qualcuno muore improvvisamente non posso fare a meno di chiedermi: ha vissuto bene? Era soddisfatto delle sue scelte? E della sua vita?
Troppe volte ho dovuto scrivere di incidenti stradali avvenuti per distrazione, per un improvviso colpo di sonno, imperizia o fatalità: persone che vanno a schiantarsi contro l’unico palo che c’era lungo la statale…
Non ricordo i nomi, ma ricordo gli episodi: quasi tutti.
Ricordo anche quelli delle persone miracolate: stessa dinamica dell’incidente avvenuto la settimana prima, ma uno muore e l’altro si salva.
Ricordo auto che si schiantano sotto un camion e c’è chi muore sul colpo e chi esce praticamente illeso. Ricordo incidenti con auto fuori strada e la fatalità di chi perde la vita e di chi, invece, se la cava con pochi graffi. Stesso posto, stessa ora, stesse condizioni climatiche.
Macchina più sicura? Minore velocità?
Difficile dare una risposta, ma quando ti capita di scrivere di operai che cadono da un’impalcatura alla stessa altezza e mentre uno muore, l’altro guarisce in pochi giorni, come si fa a credere che il destino non esista?
Non sono mai stato fatalista, anzi, sono fermamente convinto che ognuno di noi, la vita, se la costruisca con le proprie mani, ma quando arrivi a scrivere tantissimi articoli di morti improvvise e di persone miracolate, qualche dubbio inevitabilmente, affiora.
Inizi a pensare che – forse – ognuno di noi, abbia un destino già scritto e che la nostra vita – forse – una durata precisa che non possiamo cambiare.
Dobbiamo morire, certo, ma quando?
Tutti vorremmo vivere più a lungo possibile e ogni volta che veniamo a conoscenza di persone morte all’improvviso diventiamo tristi e siamo dispiaciuti, ma pensiamo debba capitare sempre agli altri e mai a noi.
La morte, infatti, è un pensiero che tendiamo facilmente ad allontanare.
Siamo coscienti che dovrà arrivare ma non sappiamo né quando, né come. Ogni istante, quindi, potrebbe essere l’ultimo della nostra vita.

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